Arriva sempre preceduto da una grossa colonna di auto, come un presidente di Stato. Guardie del corpo lo circondano, star del cinema e boss di aziende fanno benevolmente da ali, governanti si affrettano nel venirlo a salutare. Questa settimana a Francoforte sarà molto probabilmente come l’anno passato a Norinberga. Il Dalai Lama salutò allora i presenti con il suo amabile, infantile gesto. Tuttavia durante il suo discorso al palazzo comunale i presenti rimasero sconcertati, senza parole, come riportò il giornale locale il giorno successivo.
Cercando di lusingare il pubblico, il Dalai Lama affermò infatti che già da bambino aveva visto foto molto attraenti, “very attractive” di Norimberga, “con generali e le loro armi”, con “Adolf Hitler e Hermann Göring”.
Alcuni degli ascoltatori rimasero “imbarazzati”, altri “per breve tempo sconcertati”. Il sindaco di Norinberga Ulrich Maly parla di un “attimo di terrore”, poi l’ospite d’onore sarebbe riuscito a uscire dal pasticcio con l’affermazione che da bambino sarebbe stato impossibile per lui prevedere la catastrofe nazista. Se il Papa si fosse lasciato andare a simili dimostrazioni di simpatia nella città dei congressi del partito nazista e delle leggi razziali, le urla sarebbero corse per tutta la Repubblica. Invece simili affermazioni vengono perdonate alla guida dei buddisti tibetani, sebbene egli, Sua Santità, avrebbe qualche motivo per un confronto critico col passato nazista. Egli, che porta il titolo “Oceano di Saggezza”, é sempre stato nei più affettuosi rapporti con il suo maestro di un tempo, il famoso scalatore e scrittore (“Sette anni in Tibet”) Heinrich Harrer, un convinto nazista, che a lungo ha cercato di nascondere il suo esser stato Comandante Maggiore di squadra delle SS. La corte tibetana coltivava allora strette relazioni col regime nazista. Le spedizioni di SS a Lhasa furono accolte con tutti gli onori. Sua Santità non ha ancora fino ad oggi preso le distanze in modo chiaro da quelle infamanti relazioni. E questo non é il solo capitolo oscuro della sua storia di successo.
Il Dalai Lama invece preferisce lasciare in disparte ogni dubbio, sorridendo. Quasi ovunque gode di una venerazione addirittura da divinità. In Occidente appare come una supericona della modernità, in Himalaya invece governa come un signore medievale. Un mansueto buonista, che può rivelare sorprendenti tratti intolleranti, finanche dittatoriali. Il triste destino del suo popolo, l’oppressione di Pechino, l’espulsione dal Tibet distolgono lo sguardo dai problemi interni al regime del Dalai Lama.
Qui da noi riempie gli stadi come una popstar. A Norimberga l’hanno ascoltato attentamente 7000 persone, ad Amburgo due anni fa erano in 30 000, a Francoforte ne vengono attese in questi giorni alla Commerzbank Arena 40 000. Spesso i fan prenotano i biglietti a prezzi tra i 10 e i 230 € già più di un anno prima.
In combinazione con le sue mega apparizioni pubbliche si é sviluppato negli anni un supermercato dello spirito senza eguali. Su Amazon sono in lista 728 libri in tedesco e 908 in inglese sul e del Dalai Lama, 13200 video sono su Youtube, quasi otto milioni di risultati su Google. Il figlio di un contadino tibetano é il più popolare di tutti i vincitori del premio Nobel per la pace ancora viventi.
Appartenenti di tutte le religioni e anche atei vanno in pellegrinaggio al One – Man – Show. “Ci siamo guardati dritti negli occhi” urlava una giovane iperfelice di Mönchengladbach e prometteva dopo l’incontro di smettere subito di fumare. “Riesce a farmi sentire bene” diceva una ascoltatrice a Boston e riassumeva così l’entusiasmo per il Dalai Lama: “È la sua aura, la semplicità”.
Proprio lì dove lo spirito dell’Illuminismo ha le sue radici, cioè in Europa e negli Stati Uniti, il salvatore buddista dà vita a nuove roccaforti della sua religione. Anche nella generazione del ‘68, il cui atteggiamento era sempre molto critico, trova consenso. Lo Stern lo festeggiò nel 1971 come “il santo sulla montagna”, lo Spiegel ne parlò entusiasta due anni prima come “dio da poter toccare”.
Il presidente del consiglio direttivo del gruppo mediatico Springer (gruppo editoriale per esempio del giornale scandalistico “Bild” e del giornale conservatore “Die Welt”; ndt) Mathias Döpfner, l’ex regina del porno Dolly Buster, la star del calcio Mehmet Scholl, l’ex ministro dell’economia Otto Graf Lambdsdorff, l’inventore delle Love Parade Dr. Motte – infinite celebrità tedesche venerano Tenzin Gyatso, il quattordicesimo Dalai Lama.
Perché questo infinito entusiasmo? Perché il cristianesimo ha perso in Occidente credito e credenti e si é creato un vuoto, in cui si é sviluppato il Buddismo come una sorta di religione del benessere (Wellness – Religion in tedesco). Perché la pacifica calma che incarna il Dalai Lama semplicemente ha un effetto benefico nella dura battaglia della concorrenza, poiché il suo irradiare positività sembra allontanare ogni paura delle crisi e poiché in Occidente prolifera un romanticismo tibetano, un trasfigurazione del regno delle nevi sul tetto del mondo, nel cui più remoto angolo nel 1935 è nato Tenzin Gyatso in un rifugio con una grondaia di legno di ginepro.
L’esperto d’Asia Orville Schell, direttore del “Centro per i rapporti sino-americani” di New York, ha in innumerevoli opere spiegato come si é sviluppato il mito del Tibet a partire dal suo secolare isolamento, come cioè un sapere manchevole lasci fiorire le fantasie. Tutto é cominciato nel 1933 con il romanzo di James Hilton “Lost Horizon”, che apparve inizialmente in tedesco con il titolo “Irgendwo in Tibet” (“Da qualche parte in Tibet”), che si svolge nel paradiso del sole Shangri – Là, dove nessuno deve lavorare e tutti vivono in eterna pace. La fabbrica di sogni di Hollywood ne ha attinto a piene mani, creando una simbiosi tra il Tibet e la cultura pop e con il film “Kundun” ha eretto un monumento a Tenzin Gyatso. “Poiché il Tibet é ancora così inaccessibile” – osserva Schell – “esso esiste nella rappresentazione occidentale più come un sogno che come realtà, un terra su cui possiamo proiettare tutta le nostre nostalgie (“Sehnsüchte” nel testo) postmoderne”.
“Io sono per voi, quello che volete che io sia” dice il Dalai Lama. E così la star dell’alpinismo Reinhold Messner lo vede come un combattente per la protezione dell’ambiente. Al regista premio Oscar Florian Henckel von Donnersmarck piace che faccia della felicità il contenuto centrale della sua religione”. L’attrice Uma Thurman spera nell’assoluzione per il suo film pieno di sangue e violenza “Kill Bill”: “Il Dalai Lama riderebbe a crepapelle”, se lo vedesse. E il Dalai Lama sta al gioco, incurante, rimanendo “aperto” a tutte le interpretazioni, fino all’indifferenza.
Per presidenti e capi di governo é l’ideale mezzo di comunicazione, al suo fianco perfino George W. Bush appare pacifico o l’iperattivo Sarkozy mite. E il noioso presidente dell’Assia Roland Koch sembra come se avesse anch’egli un po’ d’Esprit. Presso i conservatori e i politici di destra il gioco della strumentalizzazione reciproca funziona particolarmente bene. Il Dalai Lama era strettamente legato con il politico austriaco di estrema destra Jörg Haider, che più volte andò a trovare in Carinzia.
La guida dei Tibetani ha giá 74 anni, ma é in tour senza pausa per l’Occidente da relativamente poco tempo. Nel giugno del 1979 il Dalai Lama tenne a Mont Pélerin, in alto sopra il lago di Ginevra, per la prima volta in Europa una lezione pubblica davanti ad un grande pubblico. “L’interesse per il Dalai Lama era allora piuttosto basso, non ci fu nemmeno una volta bisogno della protezione della polizia”, afferma uno degli organizzatori dell’epoca, che oggi vive in Svizzera.
Nel frattempo il Dalai Lama é divenuto popolare nel mondo, non più però in tutti i conventi dei buddisti tibetani. “Nella nostra comunità ci fu più di dieci anni fa una rottura” spiega un compagno di strada di un tempo. A prima vista si trattava di un santo protettore, che la confraternita non poteva più venerare; nel cuore della disputa religiosa c’era invece una battaglia di potere che fino ad oggi si é combattuta a suon di intrighi, calunnie, intimidazioni. Per paura di repressioni il confidente del Dalai Lama di un tempo chiede di rimanere anonimo.
La “Comunitá dei Tibetani in Svizzera” intima a tutti i tibetani della Confederazione che abbiano compiuto il diciottesimo anno di cessare, con effetto immediato, la venerazione del santo protettore tibetano Dorje Shugden e di sottoscrivere un elenco di otto punti. “Quei pochi tibetani che criticano pubblicamente, in modo infondato e smodatamente Sua Santitá il Dalai Lama, sono da noi riconosciuti come collaboratori del regime cinese”.
Questa strategia – chi non é con me é contro di me o anzi sta con i miei arcinemici – e il tono rigido non si adattano un granché con il mite modo di presentarsi che il Dalai Lama mostra in Occidente. La sua corte in Dharamsala é strutturata in modo feudale come nel vecchio Tibet, dominata da oracoli e rituali che con la tolleranza e la trasparenza occidentali hanno poco in comune. L’improvviso divieto pronunciato dal Dalai Lama nel 1996 del culto del santo patrono Shugden, venerato dal XVII secolo – uno delle centinaia di santi nel canone buddista – ha fatto cadere molti credenti tibetani in uno stato di insicurezza. Per loro tale divieto é incomprensibile. Per chi guarda dall’esterno è difficilmente comprensibile la spietatezza con cui tale divieto viene imposto. Prima del bando venerava Shugden circa un terzo dei 130 000 tibetani in esilio, ora in India si dichiara pubblicamente a favore di quel culto solo qualche migliaio. A proposito di come si attengano a tale divieto i 5000000 di tibetani in Cina non ci sono fonti indipendenti.
Il giornalista Beat Regli mostrò nel 1998 sulla televisione svizzera per la prima volta le sconvolgenti immagini del conflitto che covava nella comunità tibetana in esilio in India. Monaci di età avanzata che tra le lacrime rimpiagevano di non essere già morti prima del bando del culto di Shudgen. Una famiglia disperata a cui era stata incendiata la casa. Schede segnaletiche, con cui i malvisti venivano stigmatizzati. E un Dalai Lama che difendeva il suo bando di scomunica senza compromessi. “Wrong, wrong”, sbagliato, sbagliato, ripeteva il Dalai Lama, freddo e con una asprezza, di cui nessuno in Occidente lo riteneva capace, lui, il sempre sorridente vincitore del premio Nobel per la pace.
In Dharmsala prosegue ancora oggi tale scontro. I monaci che si oppongono agli ordini del Dalai Lama denunciano massicce discriminazioni. Parenti e amici sono messi sotto pressione. I negozi appendono cartelli alle porte “Ingresso vietato” ai credenti di Shugden.
Nell’anno passato il monastero Gaden Shartse nella città di Mundgod nel sud dell’India festeggiava l’inaugurazione di una nuova sala di preghiera. “Sarebbe dovuta essere una grande festa”, racconta un monaco allora presente ma che ha oggi paura a far sapere il suo nome. Era venuto persino il Dalai Lama e con lui le molte delle più alte autorità. Tuttavia negli interventi e nei discorsi fu trattato solo il vecchio tema di scontro a proposito di Dorje Shudgen. Poi ai monaci sarebbe stato intimato di sottoscrivere una dichiarazione circa il non praticare più in futuro il culto di Shugden. Il dissidio é tanto andato avanti che la direzione del convento poco tempo dopo ha dovuto lasciar costruire un muro alto quanto un uomo attraverso il cortile del convento.
Il dissidio religioso tiene occupata nel frattempo la giustizia civile. Su richiesta della “Comunità Dorje Shugden”, il più alto tribunale di Nuova Delhi dovrebbe chiarire se la “discriminazione religiosa” degli adepti di Shugden sia compatibile con il diritto indiano. Una decisione é attesa per la fine dell’anno.
Il Dalai Lama dice che il culto di Shugden nuocerebbe alla sua vita e “agli affari del Tibet”. Non vengono date ulteriori spiegazioni. Gli oppositori suppongono che il santo venga tolto di mezzo poiché sarebbe in concorrenza con l’oracolo statale del Dalai Lama; il santo Shugden viene infatti interpellato come oracolo.
Il governo tibetano in esilio nega ogni accusa. “Ce ne è solo una manciata di questi uomini (i seguaci di Shugden, ndt) ed essi sono totalmente al soldo della Repubblica Popolare Cinese. Questi sono i soli che parlano ancora oggi di questo tema” dice Samdhong Rinpoche, primo ministro del governo in esilio. Essere al soldo dei cinesi, questo é la peggiore accusa che si può fare ad un tibetano.
La capitale dei rifugiati tibetani si trova a McLeod Ganj, un luogo appena fuori la capitale distrettuale Dharamsala, dodici ore di bus a nord di Nuova Dehli. Nel 1960 si trasferì qui il Dalai Lama con dozzine dei suoi più stretti collaboratori, nella residenza un tempo dei comandanti del presidio britannico. Migliaia di seguaci lo hanno seguito. Nel frattempo molti indiani della regione chiamano il luogo “Little Lhasa”. McLeod Ganj é un luogo molto piccolo, solo due trafficate strade a senso unico che serpeggiano verso la montagna.
Circa 600000 turisti della rinascita spirituale vengono qui ogni anno. I caffé e i bar fanno soffiare nella valle musica ad alto volume. Banchetti di souvenir con i loro articoli kitsch – religiosi fiancheggiano le strade, un negozio offre la “moda dei monaci”. I giovani tibetani indossano jeans e t-shirt, i turisti dall’occidente vestono come gli attori in un film biblico. Little Lhasa é divenuta il Ballermann (locale alla moda di Palma de Majorca, molto amato dai turisti tedeschi, ndt) per chi è alla ricerca del senso della vita.
Il piccolo quartiere governativo é un po’ fuori mano, ai piedi della montagna, con i suoi minuscoli ministeri, il parlamento e una biblioteca in un palazzone a forma di cassetta a due piani. Il Dalai Lama sottolinea spesso che i tibetani in esilio in India avrebbero messo in piedi un sistema democratico. C’e’ un parlamento con un numero di deputati da 43 a 46. Le sedute vengono registrate su DVD e spedite a tutti gli insediamenti di esuli dal Tibet. In teoria il parlamento potrebbe prendere decisioni contro il Dalai Lama. “Questo non è tuttavia ancora mai accaduto“”dice Penpa Tsering, il Presidente del Parlamento. “Tutti hanno una grande fiducia in Sua Santità. Egli vede la questione tibetana da molte prospettive, riceve molte informazioni ed é molto, molto logico”.
A lungo i componenti della famiglia di Sua Santità hanno occupato poltrone importanti, dal 2001 il primo ministro viene eletto direttamente dal popolo. All’elezione del 2006 questi fu confermato nel suo incarico con oltre il 90% dei voti. La struttura politica a Little Lhasa é disposta soprattutto in modo tale da confermare le decisioni del Dalai Lama e cementare il suo potere. I partiti non hanno alcun ruolo. La costituzione dei tibetani in esilio non prevede una separazione tra stato e chiesa, sebbene essa si riconosca con eloquenti parole negli “ideali della democrazia”.
Nel 1990 apparve per la prima volta il giornale tibetano indipendente “Mang-Tso“ (Democrazia) – e divenne rapidamente il più importante mezzo di comunicazione della comunità di rifugiati a Little Lhasa. “Noi scrivevamo a proposito di brogli elettorali, corruzione e tutto ciò che c’é anche in qualsiasi altro paese”, racconta Jamyang Norbu, all’epoca caporedattore. “Mang-Tso” era scomodo. La redazione non si lasciò intimorire nemmeno quando diversi redattori ricevettero minacce di morte, mentre i giovani strilloni del giornale venivano minacciati per strada. Nel 1996 tuttavia la situazione precipitò subito dopo un servizio a proposito della setta Aum, che aveva commesso gli attacchi nella metropolitana di Tokio nel 1995 con gas velenosi, attacchi in cui morirono in tutto 12 persone e centinaia furono ferite. Con il capo della setta terroristica, Shoko Asahara, il Dalai Lama si era più volte incontrato. Ancora settimane dopo gli attacchi col gas il Dalai Lama definiva l’assassino guru della setta un “amico, per quanto non del tutto perfetto”; solo tempo dopo il Dalai Lama ha preso le distanze dalla setta Aum. A causa di questo articolo “le autoritá religiose hanno messo prontamente sotto pressione il giornale”, così come scrisse allora l’organizzazione “Reporter senza frontiere”. “Mang-Tso” dovette chiudere; fu la fine della “Democrazia”.
Critica e pubblici dibattiti non sono graditi a Little Lhasa. Il Dalai Lama preferisce chiedere consiglio agli dei e ai demoni. L’oracolo ufficiale dello Stato di Sua Santità si chiama Thupten Ngodup, classe 1958, che vive nel monastero di Nechung, proprio dietro il Palazzo del Parlamento, una volta scese le scalinate.
Da secoli il Dalai Lama si lascia consigliare da questo oracolo a proposito di tutte le importanti decisioni politiche e religiose. Dopo la morte del suo predecessore nel 1987, Thupten Ngodup fu investito del ruolo di veggente ufficiale del Dalai Lama. Corre voce che egli abbia ravvisato per la prima volta la sua abilità in diversi sogni e visioni. Come ulteriore indicazione delle sue capacità extrasensoriali é valso anche il suo perdere spesso sangue dal naso. Se il Dalai Lama ha una domanda, Thupten Ngodup indossa la sua pesante veste cerimoniale di 40 Kg. L’incenso viene acceso e degli aiutanti gli mettono un’imponente corona sul capo. Quindi l’oracolo danza sulla musica dei corni e dei cembali fino a che non cade in trance e inizia a mormorare frasi che sono comprensibili solo ad orecchie addestrate. Il Dalai Lama crede fermamente alle sue profezie. Ha infatti avuto a dire in una constatazione retrospettiva che “l’oracolo ha sempre avuto ragione”.
La democrazia é tutt’altro. Tuttavia la critica allo stile di governo del Dalai Lama trova raramente risonanza. Ciò viene infatti ad essere inibito dalla solidarietà con un popolo oppresso che ha come nemico la superpotenza cinese. Cacciato dalla sua terra il patriarca tibetano deve stare a guardare come lì vengano commesse terribili ingiustizie e venga cancellata l’antica cultura.
Il gruppo dirigente comunista a Pechino designa nella sua campagna persecutoria il Dalai Lama come “lupo in abito da monaco”, come “diavolo con il viso di un uomo e il cuore di una bestia”. Contemporaneamente le forze di sicurezza cinesi schiacciano ogni moto liberale sull’altopiano tibetano. Nessuna sorpresa se dunque la maggior parte degli occidentali parteggino per la parte più debole.
Tuttavia il Tibet – ben altro rispetto alla rappresentazione che se ne ha in Occidente – non é mai stato un paradiso. Quando nel 1950 vi penetrarono le truppe cinesi, il Tibet si trovava nel più profondo medioevo. Monaci e nobili si spartivano il potere; la maggior parte degli uomini viveva come schiavi, servi della gleba o in schiavitù per debiti. Una brutale polizia religiosa proteggeva il sistema a manganellate e frustate. Molti monasteri disponevano di proprie celle di prigionia. Perfino l’amico del Dalai Lama Heinrich Harrer (il sopramenzionato comandante maggiore delle SS, ndt) rimaneva spesso scioccato: “Il potere dei monaci in Tibet é più unico che raro e si lascia paragonare solo con una ferrea dittatura. Sospettosi, questi sorvegliano su qualsiasi influsso che provenga dall’esterno che possa mettere in pericolo il loro potere. Sono saggi abbastanza da non credere loro stessi per primi alla illimitatezza delle loro forze, ma sono pronti a punire chiunque esterni dubbi in tal senso”. Harrer racconta di un uomo che aveva rubato una lampada d’oro in un tempio. Gli fu tagliata la mano pubblicamente. Poi “il suo corpo mutilato fu cucito dentro la pelle bagnata di uno yak. Quando la pelle fu asciutta, venne buttato nel più profondo burrone”.
I cinesi si acclamarono dopo l’ingresso in marcia come i liberatori del popolo tibetano, distrussero monasteri e allestirono un nuovo apparato d’oppressione, ora comunista. La propaganda di Pechino ha spesso sottolineato che il Dalai Lama, al contrario dei suoi slogan pacifici, ha appoggiato l’opposizione armata nel suo paese, anche con la collaborazione degli “imperialisti stranieri”. E a dire il vero, entrambi i fratelli più vecchi del Dalai Lama avevano instaurato contatti con i servizi segreti americani. Negli anni seguenti la CIA addestrò a Camp Hale, sulle Montagne Rocciose, circa 300 tibetani alla guerriglia. In una notte di luna piena nell’ottobre 1957 si lanciarono sul Tibet da un B17 nero senza indicazioni di nazionalità i primi combattenti scelti tibetani. Nel caso di arresto da parte dei cinesi ogni combattente aveva con sé un’ampolla di cianuro.
Gli agenti tibetani protessero il Dalai Lama anche durante la sua fuga in India, attraverso telegrafi ad alfabeto Morse erano in contatto con la CIA. In seguito gli americani finanziarono l’allestimento di una armata di ribelli nel regno nepalese del Mustang. Solo quando all’inizio degli anni ‘70 il commercio con la Cina si intensificò, il programma fu cessato.
Molti sostenitori del Dalai Lama che vedono il Buddismo più come un culto esoterico che come una religione rimangono stupefatti quando sentono parlare della collaborazione del loro idolo con i sevizi segreti americani, o se vengono a sapere che la diffusione del Buddismo in Asia si svolse in maniera tanto sanguinosa quanto quella dell’Islam in Arabia o delle crociate cristiane. Continuamente si svolgono ancora in singoli monasteri in Tibet brutali conflitti. Il buddismo non é necessariamente più tollerante di altre religioni. In una intervista con “Playboy” il Dalai Lama definì le pratiche omosessuali come “comportamenti illeciti”, e allo stesso modo i suoi insegnamenti definivano “il praticare sesso orale o anale con la propria moglie o partner”. Su consiglio delle sue case editrici americane sono stati tolti passaggi dello stesso tono dal suo libro “Ethics for the New Millenium”.
Il Dalai Lama é un uomo di armonia, vuole riuscire ad accontentare tutti. Tuttavia, in futuro dovrà affrontare i conflitti. Dopotutto la critica cresce anche nella comunità in esilio. “Sua Santità vive come in una bolla, senza contatto con il mondo esterno”, ci dice l’attivista da anni Lhasang Tsering, che oggi gestisce una libreria a Little Lhasa. “Politica e religione dovrebbero essere finalmente divise”.
È quello che richiede anche Jamyang Norbu. “Il Dalai Lama non é un uomo cattivo”, afferma il caporedattore di un tempo del giornale “Mang-Tso”, “ma comincia ad essere un ostacolo al nostro sviluppo”. E aggiunge: “Noi non abbiamo affatto la democrazia. Molto é perfino peggio oggi che nel 1959. Nei tempi passati c’erano tre centri del potere politico: il Dalai Lama, i monasteri e i nobili.”Oggi é rimasto solo il Dalai Lama come unica persona di potere”.
di Tilman Müller e Janis Vougioukas su “Stern”.
Traduzione di Ercole Erculei
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